Cass. pen., Sez. V, sent. 10 aprile 2025, n. 14199 La bancarotta si giudica dal potere, non dal ruolo
Bancarotta da operazioni dolose: non basta la carica se manca il potere
![]() |
Il martello del giudice e la statua della Giustizia: la Corte di Cassazione esige motivazioni fondate, non mere apparenze |
Cass. pen., Sez. V, sent. 10 aprile 2025, n. 14199
Introduzione
Con la sentenza n. 14199/2025, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla delicata questione della responsabilità per bancarotta da operazioni dolose in capo ai componenti dell’organo amministrativo formalmente investiti di cariche, ma privi di deleghe gestorie. Il caso in esame riguarda una presidente del Consiglio di Amministrazione di una società fallita, priva di poteri esecutivi, condannata per avere contribuito, secondo l’accusa, al dissesto patrimoniale dell'ente attraverso un sistematico inadempimento degli obblighi tributari.
Il fatto
L'imputata, A.A., era stata condannata per bancarotta impropria da operazioni dolose (art. 223, co. 2, n. 2 L.F.), poiché ritenuta corresponsabile del dissesto della società, dichiarata fallita nel 2012. Secondo l'accusa, il tracollo era stato determinato da reiterati inadempimenti erariali avvenuti tra il 2005 e il 2012. Tuttavia, nel periodo 2005-2009, la ricorrente ricopriva solo la carica di presidente del CdA, senza deleghe operative.
In tale veste, secondo la Corte d'appello, avrebbe comunque dovuto vigilare, impedendo la progressiva compromissione del patrimonio sociale. La difesa ha evidenziato però che la presidente diede priorità al pagamento dei dipendenti e dei principali fornitori di servizi, tentando anche una rateizzazione dei debiti fiscali con Equitalia. Il mancato versamento delle rate è dipeso dal protrarsi del dissesto, non da una strategia fraudolenta.
La decisione della Cassazione
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso limitatamente al secondo motivo, annullando con rinvio la decisione della Corte d'appello.
La Suprema Corte precisa che la mera carica di presidente del CdA, in assenza di poteri gestori, non può costituire di per sé elemento idoneo a fondare la responsabilità per bancarotta da operazioni dolose. Serve piuttosto una dimostrazione concreta del potere effettivo dell'imputata all'interno della compagine societaria e della sua partecipazione consapevole alle condotte dolose.
Rigetta invece il primo motivo di ricorso relativo al principio di correlazione tra accusa e sentenza: l'imputata era stata condannata per fatti che si collocavano nell'intero arco temporale di sua permanenza nella compagine societaria, e non limitatamente al periodo di gestione formale.
I principi di diritto affermati
- Il dolo nella bancarotta da operazioni dolose non si presume dalla carica: occorre dimostrare una partecipazione attiva, consapevole e dotata di potere effettivo.
- La responsabilità penale per fatti di gestione societaria richiede la prova di un ruolo sostanziale, non meramente formale.
- La "strategia elusiva" ipotizzata dall'accusa va provata oggettivamente e soggettivamente, con riferimento a ciascun periodo e posizione ricoperta.
- Il conferimento di un ramo d'azienda e la successiva richiesta di concordato non costituiscono di per sé operazioni fraudolente, se realizzate nel rispetto della par condicio creditorum.
- Ai fini dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 6 c.p., la soddisfazione dei crediti privilegiati nel concordato può assumere rilievo qualora dimostri una concreta attività riparatoria.
Conclusioni
La sentenza n. 14199/2025 riafferma un principio essenziale in tema di responsabilità penale per bancarotta: non è sufficiente rivestire una carica apicale per essere ritenuti penalmente responsabili del dissesto societario. Occorre indagare l'effettivo potere gestorio, la partecipazione consapevole e gli eventuali segnali d'allarme non intercettati. Il giudice del rinvio dovrà colmare la lacuna motivazionale sul ruolo concreto svolto dalla presidente del CdA nel periodo antecedente alla delega, valutando la sussistenza o meno del dolo richiesto dalla norma incriminatrice.
La gestione dell’impresa in difficoltà non può essere criminalizzata automaticamente: il tentativo di salvare la società, onorando i debiti più urgenti e negoziando con Equitalia, può e deve essere letto come indizio contrario al dolo.
Approfondimento concettuale. Bancarotta propria e impropria
Bancarotta propria: è attribuita agli amministratori, direttori generali, sindaci o liquidatori della società fallita che abbiano compiuto atti di depauperamento patrimoniale (es. distrazioni, occultamenti, dissipazioni) direttamente e consapevolmente prima o in costanza del dissesto (artt. 216 e 217 L.F.).
Bancarotta impropria: si verifica quando il fallimento è causato da soggetti esterni o comunque diversi dagli organi gestionali in senso stretto, ma che abbiano influito con dolo o colpa sul dissesto. L’art. 223 L.F. ne è la tipica espressione: punisce chi, pur non agendo con atti “tradizionali” di bancarotta, ha concorso causalmente al dissesto mediante condotte gestionali dolose o gravemente imprudenti.
Differenza sostanziale: la bancarotta propria si radica in comportamenti tipici e materiali del diritto penale fallimentare, mentre la bancarotta impropria si costruisce su un nesso causale mediato e spesso su responsabilità per direzione d’impresa, anche di tipo omissivo o strategico.
Secondo motivo accolto: oggettivo e soggettivo del reato
Il secondo motivo di ricorso accolto riguarda proprio la carenza motivazionale sull’elemento oggettivo e soggettivo del reato.
La Cassazione afferma con chiarezza che:
- Non basta il dato formale della carica per fondare il dolo;
- Occorre invece provare il potere effettivo di gestione;
- E, soprattutto, l’intenzione (o consapevolezza accettante) di contribuire al dissesto attraverso una strategia dolosa.
La Presidente del CdA non aveva deleghe operative durante il periodo più critico e, in concreto, non fu provata una sua partecipazione attiva alla scelta di non pagare i debiti fiscali.
Condotta concreta della Presidente: priorità a dipendenti e fornitori
Elemento non secondario è la condotta fattiva della Presidente che:
- diede priorità ai pagamenti dei dipendenti e dei principali fornitori di servizi (quindi soggetti legati alla continuità operativa);
- tentò una rateizzazione con Equitalia per i debiti fiscali, anche se poi non onorata per il protrarsi del dissesto.
Questo comportamento denota un’intenzione gestionale non fraudolenta, ma piuttosto difensiva, nel tentativo di conservare l’operatività e tamponare la crisi.
Il nodo Equitalia: un meccanismo che aggrava il dissesto
In termini generali (e ben conosciuti in ambito pratico), le esposizioni verso Equitalia sono spesso gonfiate da sanzioni e interessi sproporzionati.
- L’ammontare dei debiti iscritti a ruolo non riflette sempre il debito tributario “nudo e crudo”, ma include maggiorazioni sanzionatorie e costi esecutivi.
- Tali importi, non rinegoziabili né falcidiabili in via amministrativa, portano le imprese già in crisi a uno sprofondamento irreversibile, che a quel punto non è più gestibile da nessun amministratore, anche volenteroso.
In questo senso, la stessa struttura della riscossione forzata rappresenta un fattore di aggravamento sistemico, e il dato normativo attuale non offre strumenti efficaci per risolvere il conflitto tra sopravvivenza dell’impresa e adempimento fiscale.
Commenti
Posta un commento