Detenzione e salute: no al differimento pena se le cure sono assicurate in carcere
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Foto di Sailko, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons |
Introduzione
Con la sentenza n. 16073 del 28 aprile 2025, la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un detenuto affetto da patologie respiratorie, confermando il diniego del Tribunale di Sorveglianza di Ancona al differimento pena. La decisione ribadisce l’importanza della valutazione concreta della compatibilità tra il quadro clinico del condannato e il regime carcerario, anche alla luce della pericolosità sociale residua.
La vicenda
Il ricorrente, detenuto fino al 2027 per reato ostativo (art. 416-bis c.p.), aveva richiesto il differimento della pena, anche in regime di detenzione domiciliare, lamentando l’incompatibilità delle sue condizioni di salute con la permanenza in carcere. In particolare, lamentava la mancata possibilità di svolgere attività motoria prescritta dai medici e difficoltà respiratorie dovute alla posizione del letto in cella.
Il Tribunale di Sorveglianza aveva respinto l’istanza, sulla base della relazione sanitaria del medico del carcere, secondo cui le cure necessarie erano comunque garantite all’interno dell’istituto.
La decisione della Cassazione
La Suprema Corte ha confermato la decisione di merito, precisando che, in tema di differimento pena, il giudice deve valutare concretamente le condizioni sanitarie del detenuto e la loro incidenza rispetto alla dignità della detenzione, senza fermarsi a considerazioni astratte. La compatibilità della detenzione va misurata sulla base della possibilità effettiva di garantire le cure, anche presso centri clinici penitenziari.
Nel caso in esame, le condizioni del ricorrente non risultavano tali da rendere la detenzione inumana o da mettere a rischio la vita del detenuto. La Cassazione ha altresì evidenziato che le generiche doglianze in merito alla posizione del letto e all’attività motoria non erano sufficienti a contrastare le valutazioni mediche ufficiali.
Il nodo della pericolosità sociale
Elemento dirimente per la Cassazione è stato anche il profilo della pericolosità sociale: il ricorrente era affiliato a un clan camorristico attivo e non risultava dissociato. Questo aspetto ha rafforzato la valutazione negativa sull’accesso a misure alternative, come il differimento pena o la detenzione domiciliare.
La giurisprudenza di riferimento
Il Collegio ha richiamato diversi precedenti (Cass. pen., Sez. I, nn. 49621/2023, 1033/2019, 2337/2021, 37086/2023), riaffermando che l'incompatibilità tra stato di salute e detenzione deve essere concreta, attuale e accertata, e che è sempre necessario un bilanciamento tra il diritto alla salute e le esigenze di sicurezza pubblica.
Commento operativo
La pronuncia offre indicazioni chiare agli operatori del diritto: i detenuti possono proporre istanza di differimento ex art. 147 O.P. solo se affetti da patologie gravi e non trattabili in carcere. Le allegazioni devono essere puntuali, documentate e basate su evidenze mediche recenti. La pericolosità sociale continua a costituire un limite all’accesso a misure alternative, in particolare nei reati ostativi.
Conclusione
Con la sentenza n. 16073/2025, la Cassazione ribadisce l’equilibrio necessario tra il rispetto della dignità del detenuto e la tutela della sicurezza collettiva. Il carcere non è automaticamente incompatibile con le patologie, se l’assistenza sanitaria è concreta e adeguata. La giustizia penale resta ancorata a un criterio di umanità, ma senza perdere di vista la funzione di protezione sociale.
Accesso alla Corte EDU
In presenza di una decisione definitiva della Cassazione che neghi un rimedio richiesto dal detenuto per motivi di salute, resta aperta la strada del ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ai sensi dell’art. 34 CEDU, il ricorso può essere presentato entro quattro mesi dalla sentenza definitiva, purché si configuri una presunta violazione dei diritti garantiti dalla Convenzione, come il divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3).
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha più volte condannato l’Italia per la mancata tutela effettiva dei diritti dei detenuti, con sentenze storiche come Torreggiani c. Italia, che hanno imposto al nostro Paese l’adozione di misure strutturali per contrastare le condizioni carcerarie inadeguate.
Riferimenti Normativi
- Costituzione italiana, art. 27, comma 3
- L. 26 luglio 1975, n. 354 – Ordinamento Penitenziario, artt. 147 e 47-ter
- Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 3
- Corte di Cassazione, Sez. I, sent. n. 16073/2025
- Corte di Cassazione, Sez. I, sent. nn. 49621/2023, 1033/2019, 2337/2021, 37086/2023
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Introduzione
L’8 gennaio 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha pronunciato la storica sentenza Torreggiani e altri c. Italia (ric. n. 43517/09), condannando il nostro Paese per violazione dell’art. 3 CEDU a causa del sovraffollamento carcerario, riconosciuto come trattamento inumano e degradante.
Il caso
I ricorrenti, detenuti presso le carceri di Busto Arsizio e Piacenza, lamentavano condizioni detentive inaccettabili: celle di piccole dimensioni, servizi igienici inadeguati e assenza di spazio sufficiente per muoversi. La Corte ha accertato che i detenuti disponevano ciascuno di uno spazio personale inferiore ai 3 metri quadrati, soglia minima stabilita dalla sua stessa giurisprudenza.
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